Verso le 17.30 mi preparo,  c’è una piccola componente di vento al traverso la pista è troppo stretta per correre dritto contro di lui. Tanta rincorsa, spingo tutto quello che posso, lei si alza ma non ha pressione, sbattacchia un pò e rimane un’orecchia sulla semiala destra. Pazientemente mi metto in linea con la pista, do gas progressivamente, raddrizzo la vela sopra la testa, e quando mi sento sicuro spingo a manetta. Non ho più fiato e sono felice di aver preferito un approccio delicato che mi ha permesso di decollare e non dover abortire e ripartire da capo. Sono ancora stupito di aver azzeccato tutti i decolli, prevedevo di fare più fatica, ma l’amicizia con la vela si sta approfondendo, mi sta dando modo di conoscerla, capirla, e io cerco di ricambiarla con la stessa moneta.

Dopo pochi minuti raggiungo il fiume. Sta cambiando aspetto: le sue acque diventano sempre più placide, l’alveo è sempre più ampio, i ponti hanno sempre più campate. La navigazione è dolce e piacevole, incrocio tre persone a spasso su un ghiaione, mi salutano e io improvviso un paio di virate strette perdendo quota. Mi avvicino e li saluto, loro cagnolino corre su e giù sul bordo dell’acqua.
Mi avvicino il più possibile a Piacenza, poi bordeggio il CTR dell’aeroporto (in una zona ancora decisamente vicina al fiume), e quando incrocio la verticale che da Ricengo scende giù fino al fiume viro di 90 gradi a sinistra e lo lascio alle mie spalle. Avrò un’ora di trasferimento, giustificata da una telefonata di Giuliano che, sapendo del mio viaggio, si è offerto di ospitarmi e rifornire la mia pancia ed il serbatoio del paramotore.
Attraverso il Serio, bordeggio Crema ed arrivo a Ricengo. Mi ero studiato la pianta del paese, cerco Giuliano e non lo trovo, giro e rigiro. Lo scorgo in un prato che avevo escluso dalle ricerche. Spengo il motore, perdo quota e punto verso di lui. Sbaglio, perchè sono ancora troppo alto: alle sue spalle ci sono un gelso, una stradina e qualche casa, e non vorrei atterrare nei cortili . Ormai è tardi, il motore è spento e non c’è più tempo per riaccenderlo: la scelta e non si può tornare indientro. Fisso Giuliano e vedo che, rispetto alla prospettiva, la sua figura è ferma. È la prova del nove che mi tranquillizza, significa che atterrerò di fianco a lui. Metto giù i piedi e mi trovo accolto “al volo”, nel vero senso del termine: in un attimo tutto è caricato in auto e dopo poche centinaia di metri siamo a casa. Sono letteralmente atterrato nel prato dietro casa.
Una graziosa compagna ed un simpatico bimbo di sette mesi che ti guarda con due occhioni dolci, la serata passa piacevolmente, e mi accorgo di divorare tutto ciò che mi passa nel piatto. Facciamo il pieno, ancora quattro chiacchiere e poi a dormire.
Al risveglio sono un pò teso: all’inizio della primavera i contadini lasciano crescere l’erba, gli unici spazi non coltivati hanno ancora le stoppie dell’ultimo granoturco, e pur essendo in piano decollarci potrebbe voler dire impigliarsi, danneggiare un cordino, o peggio strappare la vela. Non so da dove si decollerà.
Finiamo in un prato che conosco, dove avevamo volato insieme qualche mese fa. L’erba è ancora alta e bagnata: arriva quasi al ginocchio. Per fortuna c’è una piccola superficie libera, su cui Giuliano mi stende la vela, rubando qualche metro all’asfalto della strada. Sono fortunato, perché se c’è qualcuno che ti aiuta a prepararti (e ti fidi di quella persona) puoi concentrarti sul resto.
Faccio due passeggiate verso la direzione di decollo, aprendo una piccola pista tra l’erba alta. Ci salutiamo, e mi spiace, ma so che prima o poi faremo qualche zingarata insieme, Giuliano il volo lo vive come mezzo, non è un fine per lui. E questo mi piace, è una sintonia.
Tengo un attimo il respiro e spingo. Più forte che posso, perché l’erba alta sarà un ostacolo. La vela si alza, è nella direzione giusta.
Gas.
Mi alzo. Pesante e goffo, ma mi alzo, grazie anche al tifo di Giuliano.
Controllo tutto e lo saluto, sapendo che ci sentiremo presto, puntando verso sud. In quota non procedo, c’è vento laminare ma sostenuto, raggiungo a malapena i venti chilometri all’ora. Allora armeggio con le bretelle apro qualche tacca di trim: la vela prende velocità, si indurisce e penetra l’aria. Ricevo un suo sms: “Mezzo trim e via”.
Ricambio il saluto e mi incammino verso il fiume.
Oggi sembra di volare nella panna, l’aria è densa, si dirige verso di me, ma è piena e  nulla si muove. Sono le sette e mezza, non fa freddo, le strade si popolano, mi sento un privilegiato e quasi mi vergogno.

In distanza scorgo Cremona, la lascio alla mia sinistra ed inizio a costeggiare il fiume. Il torrazzo spunta da un sottile velo di foschia, questa mattina c’è un accenno di inversione termica e me la lascio sotto i piedi.
Il fiume ora è navigabile, si scorgono i barconi al lavoro, gli imbarcaderi lungo gli argini, il fiume è vissuto. Procedo ancora nella panna puntando verso Sissa, passo la confluenza del Taro, qualcuno corre lungo gli argini del fiume su cui ci sono lunghe strisce di asfalto parallele al corso delle acque.
Scorgo la pista e atterro. Mi è arrivato un messaggio da uno sconosciuto: c’è una bicicletta che mi aspetta, dietro l’hangar, per raggiungere il paese. La inforco e cerco una trattoria. Mi raggiunge Fabrizio, un vulcano in tuta da lavoro e pickup. Si preoccupa delle mie necessità, chiacchieriamo della zona, gli racconto che la storia del fiume è interessante, ma la gente del Po che mi accoglie sta diventando una nuova storia, LA storia, senza programmi, ricca di novità, imprevedibile.
Come nelle storie di Guareschi, dice lui, che veniva sempre qui a pescare.