L’attrezzatura è smontata e ripiegata in un bagagliaio, e in bocca ho lo stesso sapore amarognolo di quando la giostra ha fatto l’ultimo giro e sai che i gettoni sono finiti.
Ho ancora divorato i piatti di Giancarlo e passato il pomeriggio con Mauro – un ragazzo che si sta costruendo un deltaplano a motore – e intanto la manica a vento si fa sempre più tesa e i pioppi si chinano elegantemente verso nord-ovest , annunciando uno scirocco foriero di acqua e bassa pressione.
Controllo di non aver dimenticato nulla dopo aver smontato il paramotore con gesti lenti e rituali, nostalgici. Sei stecche di carbonio che tengono in tensione la gabbia: una per ogni giorno di viaggio. Lo scarico adesso non ha più la faccia del ragazzino di domenica scorsa: la temperatura di combustione l’ha brunito e sfoggia un ventaglio di tonalità dal cobalto al verde smeraldo. Sembra il dorso di una lampuga appena pescata. Prima di smontare l’elica la faccio girare lentamente con un dito per ricordare il suo rumore, di quando si avvita nell’aria.
Ripiego la vela, tentando di gonfiarla per stenderla bene, ma il vento non me lo permette ed appena lei si alza i rotori la chiudono facendola sbattere con violenza a terra. Intanto l’orizzonte si fa nero, e non c’è un segno che dia buone notizie di navigabilità.

Avevo previsto tredici o quattordici tappe, da martedì ho voluto accelerare il passo in previsione della perturbazione di oggi. Non ho seguito nessuna notizia ufficiale, non una connessione a siti autorevoli, nessuna informazione se non il passaparola che sentivo di giorno in giorno. A terra ho praticamente sempre frequentato gente che vola, e tra queste persone la novella di una perturbazione nel fine settimana passa di bocca in bocca come l’annuncio di una piena: si sa che arriverà, che procede lenta ed inesorabile e porterà disagi, ma tutti sperano che possa svanire prima del suo passaggio.
Sono stato particolarmente fortunato: ho atteso una finestra di alta pressione che mi ha spalancato le porte domenica scorsa, non ho visto un cumulo, non un segnale di instabilità o di sbuffi di calore da cui tenermi alla larga. Ora il cielo si sta richiudendo con puntualità, per aggiungere altra acqua alle correnti del fiume. Avevo una piccola scommessa: se non fossi arrivato stanco avrei potuto organizzare anche il ritorno in volo. Un percorso di pura navigazione, un rientro che sarebbe stato come l’ultimo giro di pista dopo il traguardo: nessuna pretesa di competizione, ma la mano alzata per ringraziare il fiume e chi mi ha ospitato. Purtroppo i segnali sono brutti: cielo plumbeo almeno fino a martedì, acqua a secchiate. Non posso aspettare quattro giorni fermo quaggiù, gli atterraggi poi saranno zuppi d’acqua, e c’è una vita che mi aspetta, con le sue scadenze, il suo lavoro, la sua routine grazie alla quale si creano gli stimoli per viaggi come questo.
E’ giusto che sia così, la interpreto come una metafora alpinistica: anche facendo una semplice escursione non conquisterai mai una vetta o una via, potrai essere il primo a mettere le mani su una parete vergine su cui nessun altro uomo ha appoggiato le sue dita, ma in ogni caso è la montagna che ti ha lasciato passare, che ti ha concesso il tempo e lo spazio per tracciare il tuo percorso. E devi ringraziarla. Quindi faccio così: accetto la cortesia, apprezzo le condizioni ottime che ho potuto sfruttare in sei giorni, dico “grazie” così come faccio per abitudine ogni volta che atterro. Perchè quello non è posto per gli uomini, noi possiamo soltanto imitarla la natura, copiando i profili filanti di gabbiani, cicogne, piccioni, stornelli, aironi, poiane e oche. Con tutto tutto l’ingegno e l’evoluzione tecnologica saremo sempre in difetto nonostante materiali e progettazioni, costretti ad impesantirci con goffi motori per compiere misere distanze rispetto alle loro evoluzioni o migrazioni.

C’è un hangar nascosto sui bordi del bosco della Mesola: arrivano rumori di alluminio battuto sul ferro, di mola che lucida, di attrezzi lasciati cadere sul battuto di cemento. C’è Mauro accucciato per terra con una bottiglia di birra di fianco. Ha un sorriso grande e l’accento romagnolo che adoro. Sta preparando il telaio per un suo nuovo deltaplano a motore. Sul banco di prova c’è il motore: un bicilindrico boxer Bmw, quello della GS da enduro. Con un riduttore e le opportune modifiche sarà il propulsore del suo nuovo deltamotore. Lo invidio: ammiro la capacità di progettare un insieme del genere, di seguire ogni minima saldatura del telaio, ogni milimetro calcolato sul calibro. Senza ingegneri, senza team.

Il sabato c’è più attività: chi rivernicia la carlinga, chi fa manutenzione. Incontro casualmente Claudio Mantovani – che mi ha ospitato due giorni fa – mi faccio dare l’indirizzo giusto e passerò tra poche ore da casa sua a ritirare i regali che mi ha fatto e che non ho potuto portare con me.
Carico il bagagliaio, ripercorro a ritroso la strada ceh attraverserà divrse volte il fiume: mi ritorneranno in mente ricordi che sembrano lontani di mesi, ma si tratta di pochi giorni fa. La giostra è finita, sono sceso con un il capogiro perchè ci sono stato sopra per giorni e giorni: ora ho finito i gettoni e sono felice.
Per una volta ho attraversato il Po dalla parte giusta, quella che si merita: non un’occhiata furtiva sfrecciando su un ponte, ma attraversandolo per lungo.

Grazie.