Da quando sono atterrato non mi sono ancora tolto dalla mente un pensiero fisso, rimproverandomi: mi ero fatto una promessa solenne e l’ho disattesa. O forse no. O forse sono stato aiutato dal destino, dalla fantasia dei venti, dalla fortuna.

Sono decollato da Sissa alle 17.00, un pò presto per i miei gusti. La giornata è stata più estiva del previsto: il sole ha scaldato molto, restituendo il calore in bolle d’aria calda invisibili e – per il mio temperamento – insidiose, e non avevo nessuna voglia di attraversarle. Oggi però non posso fare altrimenti, perché è l’unico giorno in cui ho un appuntamento prefissato.
Lasciare Sissa (l’aeroclub Ali del Po) non è facile. Sono stato accolto calorosamente dalla famiglia Guasti, e ho sorriso in segreto per il meraviglioso ossimoro che è questo cognome, se accostato al volo…
Mi aggiustato la mia giornata, mi hanno fatto trovare una bicicletta, la benzina, e tutti i servizi extra che non potevo nemmeno immaginare.
Quindi erano le 17.00. Prevedevo un’ora di montagne russe, fino alle 18.00, poi un pò di pace fino all’arrivo previsto a Sermide, almeno alle 19.15
I conti tornavano. Il serbatoio era pieno fino all’orlo, i chilometri calcolati, prevista anche una componente di vento contrario: lo che mi ha aiutato al decollo.
Faccio quota velocemente, mi dirigo verso Sermide senza esitazioni: il fiume disegna una lunga esse che attraverserò esattamente in centro, guadagnando un pò di strada.
L’aria è mossa, la vela si muove tra le onde, va tenuta verso la destinazione. Cerco accuratamente di sorvolare ampie zone uniformi per attraversare masse d’aria omogenee. Ciononostante incappo spesso e volentieri in lunghe discendenze o termiche repentine.
Nei miei piani passo di fianco a Suzzara circa a metà del viaggio, ed avrò un responso sull’autonomia: se ho più di mezzo serbatoio procedo, se sono sotto posso scegliere di atterrare a Suzzara. Se trovo qualcuno faccio rifornimento, altrimenti mi fermo per la notte. Ma sono determinato a proseguire: dieci giorni fa alcuni ragazzi di Sermide mi hanno telefonato, invitandomi a fare tappa da loro. Hanno addirittura fatto falciare una striscia d’erba lungo l’argine: un atterraggio soltanto per me. Ho promesso loro di arrivare questa sera, quindi costeggerò il fiume, per poi lasciarmelo una decina scarsa di chilometri sulla sinistra, durante l’ultimo terzo del segmento.
Quindi passo Suzzara, faccio passare qualche decina di minuti per arrotondare i consumi ad abbondanza, garantendomi un margine d’errore cospicuo.
Otto litri su dodici.
Il serbatoio tiene dodici litri. Anche pieno fino all’orlo non arriva a quattordici: ce la farò. Nonostante il leggero vento contrario vado a 34 chilometri l’ora, e sono motivato.
In questi giorni di conoscenza dell’ala ho stabilito che le varie configurazioni di questa vela dovrebbero garantire la stessa autonomia chilometrica: se scelgo di rilasciare i trim – guadagnando velocità orizzontale – perdo efficienza, e avrò necessità di più potenza aumentando i consumi a fronte di una media oraria più sostenuta (e maggiore capacità di penetrazione nelle turbolenze). Al contrario se chiudo i trim la vela è decisamente più lenta, ma richiede meno gas e riduce quindi i consumi.
Decido per la via di mezzo, e la media è di tutto rispetto, valutando il vento contrario.
Alle 18.35 prevedo un’ora scarsa di volo residuo, mando un messaggio di conferma a Mirco che mi aspetta. Punto dritto verso Sermide e il gioco sembra fatto, atterrerò con due – tre litri scarsi di benzina.
Passano cinque minuti quando d’improvviso prendo un brutto scossone. Mi coglie impreparato: sono quasi le 19 e 30, mi trovo in pianura, sotto di me campi coltivati…nessun motivo di turbolenza. La vela va un pò a spasso, scarroccia a destra per quasi novanta gradi, segue una sua idea personale ed io fatico a tenerla dritta. Nello stesso momento ho l’impressione di essere fermo: il paesaggio non sembra scorrere a fianco, dovrei essere quasi alla massima velocità ma sono immobile. Guardo il gps e vado a 18 chilometri all’ora, intanto la turbolenza si placa e torno a puntare verso Sermide.
Il problema è che se continuo così il carburante non mi basterà.
Controllo il livello: conto, divido, moltiplico: se ci arrivo sarà per un soffio, ne avanzerò un litro, forse mezzo, comunque c’è quanto mi basta, seppur per poco.
Intravedo sotto l’orizzonte, in distanza, il ponte di fianco a cui abbiamo appuntamento: ogni tre minuti controllo i consumi e rifaccio i conti, perchè non mi fido. Potrei non farcela: sarebbero dovuti mancare 25 minuti, e sono diventati più di 40. Andavo a 34 all’ora, punte di 36 -37. Ora sono inchiodato a 18, massimo 19, ed i litri diminuiscono.
Faccio il tifo, parlo alla vela, alzo le ginocchia nella vana speranza di offrire meno resistenza al vento, mi raggomitolo. Ancora 15 minuti.
Vedo alcune macchine parcheggiate sull’argine destro a ridosso del ponte. Loro ci sono, vedo una piccola macchia di colore: hanno piantato un segnavento.
Prendo lo specchio in mano: mezzo litro. Non riesco a capire cosa sia successo, ma in un istante deduco: ho attraversato quell’invisibile separazione tra le correnti del continente e quelle marine. Le masse d’aria non si mescolano: fanno come le acque di un affluente: viaggiano separate per un lungo percorso, lungo il quale si nota una marcata linea di separazione. Disegnano arabeschi intrecciato tra di loro, linee turbinose che cercano un equilibrio. Le ho attraversate ortogonalmente, passando in mezzo a quegli arabeschi che mi hanno fatto ballare. Sono oltre confine, ora l’aria appartiene al mare, cerco conferma con il naso, cerco un sentore di salsedine a duecento metri di quota, ma non ho risposta.
L’atterraggio è sempre più vicino, li vedo di fronte a me, ma ci sono ancora due chilometri, e non procedo. La sensazione è quella di correre con un elastico legato dietro alla schiena.
Negli ultimi trenta minuti ho quasi contato i giri del motore, non volevo sprecare nemmeno una molecola dei vapori, risparmiando fino all’ultima goccia.
Decido di impostare l’avvicinamento: lascio il gas, chiudo i trim. Ora sono praticamente immobile, ho perso di nuovo velocità, ma sono in un cono di efficienza che mi permette di atterrare nel campo. Cerco la pista dove hanno falciato l’erba, non la trovo. Riapro il gas per mantenere quota: il motore fa gli ultimi giri e mi saluta.
Silenzio.
Ancora silenzio.
Ho disatteso la mia promessa: “mai rimanere a secco in volo”. Non soltanto per sicurezza, ma per principio.
Prendo lo specchio e sono sicuro: anche il tubo che porta al carburatore è vuoto, tentare di riaccendere il motore sarebbe inutile.
Plano, e molto lentamente prendo le misure: c’è un campo di mais basso: scenderò lì.
Ho il vento in faccia, arriva dal mare, la velocità orizzontale è ridicola, scendo quasi in verticale. Ad una trentina di metri inizio a dondolare, non riesco a tenere ferma la vela: il campo è ad una decina di metri sotto l’argine, l’aria incontra case e ostacoli prima di giungere a me: arriva turbolenta. Non mi preoccupo troppo: la velocità orizzontale è ridicola, tiro i freni ed atterro non distante da un fosso da cui mi sono ben guardato di finirci dentro.
Metto i piedi per terra. Non riesco a crederci: mi ricorda una scena di circa dieci anni fa, quando sull’autostrada in Toscana continuai a posticipare il rifornimento, trovandomi a secco in cima ad un sovrappasso. Misi in folle, arrivai di inerzia di fronte alla pompa, in silenzio, i giri delle ruote giusti giusti. Oggi si è ripetuto, nonostante mi fossi promesso di non ripetere queste inutili prodezze, almeno in volo.
Ho disatteso una mia promessa, sono incazzato ed esausto: avrei voglia di prendere a calci un bidone dell’immondizia. Ma ci sono sei ragazzi, che mi aspettano da una settimana, che stanno correndo verso di me in mezzo al mais.

Più di un’ora di volo per gli ultimi 17 chilometri.