Pensavo di stendermi al sole ed attendere l’ora giusta per il decollo, ma avevo sbagliato programmi.
Mi sveglio e faccio due passi attorno alla pista, e al ritorno trovo il parapendio, due cani che ci gironzolano intorno, una bimba e sua madre. Mi imbarazzo un attimo, perché capisco che in poche ore ho fatto mio quel posto: un paio di mutande e calze stese a asciugare, un sacco a pelo in terra, vari aggeggi sparsi disordinatamente sul tavolo. Quello è un angolo perfetto per la merenda, ed io me ne sono appropriato senza chiederne il permesso. Mi presento e riassetto la tavola, neanche tempo di mettere via le mutande che salta fuori la merenda anche per me.
Sul tavolo c’è una copia del gazzettino locale, uno di quei quotidiani a tiratura lillipuziana e diffusione capillare che raccontano la vita dei paeselli: sulla prima pagina c’è una descrizione dettagliata del mio viaggio e una mia fotografia. Oramai sono entrato nella wall of fame della bolla di questo micorocosmo sociale: la notizia del mio viaggio arriva prima di me, e io sono appena cascato dal cielo, inatteso, proprio nel cortile della casa Mantovani. Per qualche minuto c’è un parapiglia che vede coinvolti il signor Mantovani, la signora Mantovani e il Gazzettino: lei insiste che quello che lui ha scambiato per ladro di rame, qualche ora prima, è la stessa persona di cui si parla nel giornale, e che ora sta facendo merenda con loro. Alla fine lo convince.
Non passano cinque minuti e arriva Claudio Mantovani. Si appassiona al mio viaggio, mi fa il pieno e neanche a lui riesco a pagare la benzina (una volta arrivato farò il conto di quanto carburante ho bruciato a scrocco), mi riempie di regali: cappellini e magliette, sponsorizzati dalla sua azienda e dalla sua aviosuperficie, che si chiama Stella. Non so dove metterli e chiedo loro di conservarli (insieme ad un gagliardetto della città di Sermide, gentile omaggio della città), accetto il panino e lo schiaccio opportunamente per farlo diventare più piccolo: me lo infilo sotto i vestiti e sarà la mia cena.

Decollo e saluto i Mantovani: a braccia spalancate ricambiano il saluto in quello stile che ho imparato a riconoscere.
Seguo il fiume. Oramai è espressione della sua maestosità e della sua importanza. È una massa d’acqua che fluisce placida verso il suo sbocco naturale. Nessuna forza, nessuna bonifica, nessun ingegno a questo punto può contenere la sua volontà. Traccio una linea che attraversa una esse del fiume, sotto di me una coppia di gabbiani vola nella stessa direzione, e li osservo per almeno un quarto d’ora. L’uomo non può fare altro che imitare la natura: non potrà mai competere con un’eleganza simile.
Incrocio un battello, penso che sia turistico, perché vedo dei tavolini in coperta e un uomo elegante che li appronta, suppongo per la cena.
Taglio a sinistra, verso nord. Punto verso Chioggia, e vedo per la prima volta il mare, si scorgono i labirinti del delta, i canneti, le darsene. Sono in anticipo e ho una componente di vento che mi spinge, filo a cinquanta – cinquantacinque all’ora. Trovo il campo volo, sono quasi le otto, ho ancora carburante per più di un’ora, e mi faccio un regalo: viro verso est, passo sopra un bosco e vado a giocare sulla laguna. Sono all’estremo nord del delta, anzi…qui sono sulla foce dell’Adige. Sarebbe un’ altra storia, un altro fiume, altro viaggio ed altre genti. Ma non mi interessa, perchè le acque si incontrano e non fanno differenze: voglio raggiungere l’acqua di fiume che diventa acqua di mare. Gioco sulle lagune, mezz’ora di divertimento che mi regalo, e rientro verso il campo. Sono le otto e venti, il sole è sceso, intravedo la pista, sto lontano dai fili che corrono a pochi metri, atterro dolce e mi mangio il panino dei Mantovani.

Dopo dieci minuti Angelo, il proprietario della pista oramai utilizzata per aeromodellismo, mi telefona, perché mi ha sentito sorvolare la pista mezz’ora prima, ma suppone che mi sia fermato a dormire in spiaggia, perchè atterrando a motore spento nessuno mi ha sentito. Mi dice di alzare lo sguardo, che in fondo alla pista c’è una casa con una finestra da cui si intravede una cucina. La riconosco. Mi dice di raggiungerlo per mangiare cena.
Mi presento, in imbarazzo per un invito così cordiale e inatteso, senza appuntamento. Sono timido: ho quel filtro sabaudo che ti fa supporre che se arrivi senza preavviso allora disturbi, e scombini i piani della gente. In questo viaggio ho fatto la revisione del motore: ho cambiato filtro con uno nuovo. Questo ha una marca diversa, e mi piace di più.
Mangio cena e chiacchieriamo, ci conosciamo: mi dice di lasciare l’attrezzatura dove si trova e mi accompagna alla roulotte che sta riparando: mi propone di dormire lì.
Dopo mezz’ora cerco un posto dove ricaricare il telefono, nella tettoia adiacente, in mezzo a trattori e attrezzi per lavorare la terra. È buio, ho una torcia. Mi dirigo verso la roulotte e arriva un’auto guidata da una donna che è qui per parcheggiare. Ha un’espressione tesa, immobile. Io non so che pesci prendere: ho tutte le fattezze di un brigante che con una pila si è introdotto furtivamente nel suo cortile. Sono impietrito, spengo la torcia e alzo le mani in segno di resa per comunicarle che sono innocuo, e per fortuna arriva Angelo che sistema le cose. Per il secondo giorno di fila mi hanno preso per un furfante, e questa volta penso di aver anche spaventato – a ragione – questa ragazza.
Mi addormento senza fare complimenti, tra un sentore di muffa e di resine, classica atmosfera da “roulotte in riparazione”.
Mi sveglia il gallo, toilette con la pompa del giardino. Controllo per sicurezza la distanza dalla prossima tappa, calcolo il carburante e parto sicuro.
Sono le sei e trenta, decollo e una coppia di contadini in mezzo ai campi mi fissa, poi mi saluta.
Chissà a cosa penseranno.